La storia dell’Europa contemporanea comincia alla metà del XIX Secolo, quando il settore industriale registra la prima grande espansione, rivoluzionando usi e costumi millenari di una società prevalentemente agricola, legata ai ritmi naturali, alla sfera religiosa, a un certo fatalismo e accettazione della misera realtà quotidiana che affondava le sue radici nell’età feudale.
La nuova società, basata sull’elemento industriale, rispondeva a nuove logiche di efficienza e di profitto, e questo fece sì che i rapporti fra le classi sociali e la mentalità delle classi stesse, subissero cambiamenti radicali; grandi masse contadine si riversarono nelle città in rapida espansione e divennero masse operaie, sfruttate senza pietà dal nascente capitalismo; le condizioni di vita nei grandi quartieri operai portarono con sé abbrutimento e miseria, alcolismo e disperazione, realtà difficilmente conosciute dalle plebi contadine, povere sì ma dignitose. Il quadro socio-politico, di conseguenza, conobbe un’evoluzione non sempre pacifica, stante la presa di coscienza delle classi operaie che cominciarono la lotta per i loro diritti.
La Germania fu uno dei Paesi maggiormente interessati dal nuovo corso, e non casualmente il Manifesto del Partito Comunista vide la luce nel 1848 per mano di Marx ed Engels, entrambi tedeschi, economisti ma anche sociologi, che colsero in pieno il nuovo sentire di masse fino ad allora politicamente inerti. Le città e le fabbriche divennero il luogo di una dialettica anche violenta, e il sorgere del movimento operaio, socialista e anarchico, portò a una decisa radicalizzazione del governo imperiale. Tensioni che inevitabilmente si riverberavano sulla vita di tutto il popolo tedesco, sul suo modo di guardare e interpretare la realtà, con un conseguente aumento dell’insicurezza, della frustrazione, dell’amarezza. La logica del profitto economico aveva ridefinito i rapporti fra classi, lo Stato autorizzava lo sfruttamento in nome del denaro, il ceto operaio conosceva solo misera, fatica e alienazione. In nome del profitto e della ricchezza si inasprisce il colonialismo europeo, caratterizzato anche da forme di aperto razzismo. La sfrenata fiducia nella scienza, nella tecnica, nel denaro, che inebria le classi dirigenti, trascina la Germania (e l’Europa), in un vortice di violenza che si apre con la guerra franco-prussiana del 1870, prosegue con l’ondata di antisemitismo negli anni Ottanta, e infine sfocia nella Prima Guerra Mondiale.
In mezzo, una sensibile evoluzione del pensiero, dominato dall’esistenzialismo angosciato di Nietzsche, che contrastava fortemente con il decadentismo espressione dalle classi più agiate, legate all’esibizione della ricchezza. La fine della Grande Guerra, che vide l’abdicazione del Kaiser, portò alla nascita della Repubblica di Weimar, flagellata da enormi problematiche quali la povertà, la disoccupazione, la carestia, la necessità di ricostruire città e impianti industriali, di pagare le riparazioni di guerra. La mostra ripercorre circa tre decenni di storia artistica e sociale tedesca, dagli ultimi bagliori dell’Ottocento alla tragica e affascinante modernità della nuova realtà sociale e politica. Suoi acuti interpreti furono, oltre a cineasti quali von Sternberg, Murnau, Wiene, e scrittori come xx e xx, i pittori del movimento espressionista, che mossero i loro primi passi negli anni immediatamente precedenti alla Grande Guerra.
Poiché il Novecento si presentò da subito come il secolo delle masse e delle città, gli Espressionisti si fecero portatori della necessità di riaffermare l’individuo all’interno di quel senso di alienazione insinuato dalla sempre più imperante dimensione urbana. L’Espressionismo fu quindi una reazione artistica alla preponderanza della macchina sull’uomo, all’idea del profitto esasperato, della solitudine trasmessa dalla massa (quella noia dell’anima di cui scrive Nietzsche), ma anche alla violenza di un’Europa impegnata nella corsa agli armamenti, pur dopo l’ecatombe del 1914-18.
Con un certo atteggiamento utopico (in questo anticipatori dei movimenti giovanili degli anni Sessanta), gli Espressionisti si dichiararono contrari al materialismo della società industriale (leggi capitalista), all’urbanizzazione selvaggia dei quartieri-dormitorio, e favorevoli invece al recupero del rapporto con la natura. Non casualmente, in quegli stessi anni era nato il movimento dei Wandervögel (uccelli vagabondi), naturista e comunitario, votato al recupero delle radici neopagane tedesche.
A livello stilistico, gli Espressionisti avvertirono l’influenza dell’ultimo Cézanne, con i piani geometrici sfalsati e i colori vivaci, ma dialogarono anche con i Cubisti, e l’astrattismo.
L’Espressionismo tedesco lo si può dividere in due correnti principali: una più strettamente legata alla dimensione sociale, alla città, alla vita mondana con il circo e i cabaret, che faceva capo al gruppo Die Brücke (Il ponte), e un’altra più marcatamente spirituale, aperto all’astrattismo e al primitivismo dei naif, che si riuniva nel collettivo Der blaue Reiter (Il cavaliere azzurro) fondato dal russo Kandinskij nel 1911.
In quest’ultima poetica rientrano le tele agresti di Walther Bötticher (Mucche la pascolo, Alti fusti nel sottobosco), che costituiscono una reazione alla città proponendo paesaggi campestri arcadici e gioiosi, mentre Gabriele Münter in Paesaggio con muro bianco (1910) sceglie una prospettiva più onirica, vicina ai paesaggi di Chagall e dei Fauves. Nettamente astratta la Piccola composizione (1913) di Franz Marc, che in un tripudio di colori accosta forme diverse, dai cubi alle sfere.
Questa visione prevalentemente “irreale” che caratterizza il blaue Reiter è insita nel nome: il blu è il colore della speranza, utilizzato comunque anche accanto ad altri colori brillanti. Ne risultano opere intrise di un messaggio spirituale profondo, quale l’urgenza di recuperare il rapporto con sé stessi, con l’idillio naturale ormai quasi del tutto perduto. Più raramente il movimento si spinse su toni di osservazione sociale; due begli esempi sono comunque Donne pallide davanti al negozio di cappelli (1913) di August Macke e i Fratelli di Erich Heckel (1913). Il primo guarda con una certa ironia alle donne borghesi che seguono le frivolezze della moda, finendo per essere tutte uguali nello sforzo di essere originali (dipingendole senza volto, Macke ironizza proprio su questo).
L’opera di Heckel è invece una xilografia che utilizza il tema familiare per far luce sull’emersione dell’omosessualità in Germania, dove sulla scia di Parigi stavano sorgendo numerosi club per uomini.
Al contrario, Die Brücke nato nel 1905, si caratterizzava per una maggior concretezza: di ambiente principalmente urbano, le tele dei suoi esponenti si ispiravano a Nietzsche e al suo passaggio verso un futuro perfetto attraverso il Super Uomo; gli Espressionisti, più modesti negli scopi, si limitarono a un perfezionamento artistico, congiungendo il neo-romanticismo tedesco con la pittura moderna; la loro, appunto. Seguivano uno stile di vita per certi aspetti riecheggiava quello degli Impressionisti bohémiens nella Parigi del secolo precedente, e una certa sua reminiscenza la si ritrovava nella Berlino del primo Novecento, con i suoi cabaret e i teatri di rivista. Il movimento vantava seguaci anche nelle altre città tedesche, fra cui Dresda, dove Ernst Ludwig Kirchner utilizzava il suo atelier anche come luogo d’incontro per i colleghi, non necessariamente solo per conversazioni artistiche o intellettuali.
Ne rende bene l’atmosfera Gruppo di artisti (1913)
È evidente il tributo all’avanguardia cubista degli esordi, in particolare nei due volti femminili. Sullo sfondo, di un blu inquietante (diverso da quello del blaue Reiter), si muovono figure stilizzate che anticipano Keith Haring. Emerge anche il radicale cambiamento della moda femminile, con le due donne in secondo piano che portano i capelli corti e indossano abiti dello stesso colore dell’uomo in primo piano. L’atmosfera è cupa, l’intimità ingannevole, volta soltanto a ingannare una noia angosciosa.
Die Brücke o blaue Reiter che fosse, si trattava comunque di una pittura dal tratto spigoloso, fortemente anti-naturalista, che puntava più ad esprimere, appunto che ad affascinare. Le tele espressioniste sono emotivamente forti, a tratti anche oscene nei tratti dei volti, non c’è innocenza in quei corpi.
La prima stagione espressionista si conclude appena prima della Grande Guerra: nel 1913 si scioglie Die Brücke, l’anno successivo sarà la volta del blaue Reiter; entrambi furono dilaniati dalle controversie interni. Ognuno dei membri aveva infatti sviluppato un suo stile personale, che nel dopoguerra avrà modo di riemergere. Spentasi la voce del cannone, in Germania tornò a palpitare il sentimento artistico, in una situazione diametralmente opposta a quella del 1914: la Repubblica di Weimar era uno Stato in bancarotta, aggredito dalla fame e dalla disoccupazione. E la sua umanità ferita fu il soggetto dell’Espressionismo della seconda fase, che comunque fu ancora all’insegna delle due correnti. Max Pechstein è infatti continuatore del Die Brücke, con il suo osservare quella società avvilita dalla sconfitta, certo, eppure ancora viva e orgogliosa. I suoi Acrobati (1918-19) colpiscono per la prevalenza del rosso dei costumi, e l’allusione vagamente sessuale della posizione dell’uomo e della donna. Resi ancora una volta con i tratti del volto spigolosi, a sottolineare un’ebbrezza dolorosa, la stessa dell’Angelo Azzurro di von Sternberg.
L’occhio sociologico di Pechstein continua l’indagine con la Donna che fuma e il Fantino, entrambi del 1920; due personaggi della cafè society di Weimar, sottilmente debosciati, androgini nel portamento e nel modo di vestire. Nel clima libertario di una Repubblica in sfacelo, i Wandervögel fecero sentire ancora di più la loro presenza; espressione di questo sentire, le tele di Otto Mueller Due nudi al lago (1920) e Ragazze vicino all’acqua (1926); il nudismo, la trasgressione, l’omosessualità, erano divenute le nuove frontiere di una società stretta fra la miseria quotidiana e la violenza politica (Weimar visse mesi di duri scontri tra conservatorie socialisti) da una parte, e l’urgenza di evaderle attraverso un superamento della realtà stessa. In sostanza, si trattava di un malriuscito tentativo di creare il Super Uomo nietzschiano. Su questa mancanza, s’inserirà purtroppo il Nazionalsocialismo pochi anni più tardi.
L’Espressionismo cattura la paradossale Germania di Weimar, Paese culturalmente vivace ma che si stava anche avviando all’incubo della dittatura, dove la frangia conservatrice si ergeva mano a mano a maggioranza. Ma il sapersi mantenere in equilibrio fra opposte dinamiche della società, è in fondo la grande forza dell’arte, che riesce comunque a sfoderare un punto di vista oggettivo sulla realtà. Quasi fossero una sequenza cinematografica, un po’ sullo stile di Hogarth, Max Beckmann lavorò alle incisioni della serie Berliner Reise (1922), che raccontano, con vena fra l’amaro e l’ironico, scene di vita quotidiana nella controversa Berlino di quegli anni, stremata dalla crisi economica e dalla crisi politica, eppure culturalmente viva e curiosa, aperta alla sperimentazione e sottilmente perversa. Lo dimostrano i tanti night-club, anche per omosessuali, che erano sorti in città, ultimo baluardo di trasgressione, sulla scorta di Proust. Eppure, la massa è acritica, paga di sfogare un’ebbrezza sempre più tragica, al pari dei baccanali che infuriavano nel Medioevo durante le epidemie di peste.
Questa grande stagione si conclude nel 1938; è l’anno del Patto di Monaco, la Germania si è annessa l’Austria e la regione ceca dei Sudeti, le leggi razziali tracciano il muro fra cristiani ed ebrei, e il primo campo di concentramento (Dachau), è già stato aperto nel marzo del 1933. In quello stesso 1938, Karl Schmidt-Rottluff dipinge l’acquerello Maschera congolese con ciotola, che chiude la mostra. Al di là della vecchia fascinazione delle avanguardie per l’arte africana, questa volta l’artista dona alla maschera un’espressione da tragedia greca, intrisa di dolore e amarezza; un Pierrot africano che presagisce sventure.
Scrive D’Annunzio che nelle situazioni gravi e drammatiche, la vita interiore di ognuno subisce una vertiginosa accelerazione; la subiscono anche i processi mentali, in preda a una rabbia a un’ebbrezza pressoché incontrollate. La Germania a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta attraversava una fase drammatica della sua storia, inserita nella più grave situazione europea. L’arte, da sola, non può indirizzare il corso della storia; per questo, ci voglio individui pensanti; ma la Germania degli anni Trenta era uno stato ormai totalitarizzato, dove la coscienza individuale non trovava spazio.
A distanza di decenni, alla luce della crisi che l’Europa sta di nuovo attraversando, pur con settant’anni di democrazia, sembra che la coscienza civile stia tornando a dissolversi. fonte 2duerighe.com